Per le startup il problema più grave non è la mancanza di capitale, ma l’assenza in Italia di un mercato per l’innovazione. Secondo Andrea Arrigo Panato – docente del Master RIAF della Challenge School dell’Università Ca’ Foscari e da più di dieci professore della Scuola di Alta Formazione (creata dalla collaborazione tra la Fondazione dell’Ordine dei Commercialisti ed Esperti contabili di Milano e l’Università Bocconi) – i principali player tendono a conservare i rapporti di forza piuttosto che acquistare prodotti e servizi innovativi o puntare sull’open innovation. «Le imprese italiane sono in media piccole e questo implica una limitata capacità di acquisizione».
Panato è uno che il mondo delle start up lo conosce bene, tanto da averci scritto nel 2019 un libro – in cui consiglia di aprirsi ai mercati internazionali fin da subito – e da dire: «Altri aspetti negativi sono lo storytelling e la presenza sul mercato di troppi attori poco sinceri nei loro confronti. C’è troppo business intorno alle startup e poco per le startup».
Come lavora il suo studio su questo terreno?
Prima di prendere un nuovo cliente regaliamo qualche ora da sparring partner. Testiamo la validità del progetto e conosciamo meglio il cliente In realtà, seguiamo poche startup, ma di valore, con team qualificati. Fare startup è faticoso per i founder e lo è anche per gli advisor perché seguire un’impresa innovativa significa scommettere su un progetto, lavorando con bassi margini e su scenari complessi. La crescita umana e professionale è, però, impagabile.
Che tipo di clienti ha e quali sono i servizi che offre?
I nostri clienti sono imprese di piccole e medie dimensioni. Non sono molti perché vogliamo continuare a garantire la qualità tipica della boutique. I nostri clienti ci selezionano, ma in qualche modo anche noi selezioniamo loro. Per noi è importante lavorare con imprese a cui sappiamo di poter portare valore. Seguiamo dalle startup alle società quotate che hanno in comune l’aver accettato la sfida del cambiamento e della crescita. I settori in cui operiamo di più sono quelli legati al mondo dell’innovazione. Il nostro studio segue imprese soprattutto nazionali, ma capaci di competere a livello internazionale. Recentemente abbiamo stretto una partnership con un importante attore del mondo dell’innovazione di Boston che ci aiuta ad avere una finestra aperta sui trend del futuro e su nuove opportunità per noi e i nostri clienti: imprenditori coraggiosi, ma non incoscienti. Si rivolgono a noi spesso quando si trovano di fronte a una forte discontinuità strategica. Questo, come sempre, spaventa. Il coraggio, però, non consiste nel non avere paura, ma nel saperla gestire con consapevolezza. Un’attenta analisi degli scenari e dei dati a disposizione aiuta a razionalizzare i timori e superarli.
In concreto, cosa fate?
All’inizio stressiamo l’idea del nostro cliente, mettendo sul piatto tutto lo scetticismo che caratterizza la nostra professione. Una volta, però, validato il progetto, si lavora insieme sui numeri, spesso creando una squadra ad hoc con avvocati e altri professionisti. E i nostri clienti sanno lavorare in squadra. Devo ammetterlo.
Le sono mai capitate aziende “patologiche”?
La patologia aziendale è molto interessante, ma anche molto faticosa. Ci siamo occupati in passato e ci occupiamo ancora oggi di piani di risanamento e ristrutturazione aziendale, nel mio caso come esperto della composizione negoziata della crisi d’impresa. La terapia migliore è la prevenzione. Di recente l’obbligo di adeguati assetti organizzativi ha fatto comprendere quanto importante sia lavorare su bilanci previsionali e piani di impresa. Questo è nel DNA del nostro studio. E sa perché?
Dica.
Ero ragazzino e ricordo mio padre riassumere i dati importanti su un tovagliolo di un bar durante un aperitivo con un cliente. Mi spiegò che dietro quei pochi dati c’era molto lavoro, ma che era suo compito sintetizzare per consentire al cliente di tornare a casa, discuterne con la moglie e prendere una decisione consapevole per l’impresa e la famiglia. Ecco, questa è forse stata la lezione più grande che ho imparato da mio padre. Quel tovagliolo del bar oggi è sostituito da qualche foglio di Excel. Ma alla fine è sempre la sintesi quella che cerchiamo.

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Qual è il fascino di questa professione? Il suo rapporto con la sua attività?
Dico subito che ai tempi dell’università volevo fare consulenza strategica. Studiando, mi sono reso conto, però, che avere solide basi di bilancio e fisco è importante per riempire di competenze la consulenza. Questa è una professione che si può costruire su misura dei propri interessi professionali. Ed è proprio sulla mia passione per la valutazione d’azienda che ho costruito il nostro studio e i servizi che offriamo ai nostri clienti. La mia è una famiglia che ha una lunga tradizione nelle libere professioni economico giuridiche. Questo ha influenzato molto la mia formazione fin da ragazzo. Il mio rapporto con questa professione è di amore/odio come in tutte le storie passionali.
Perché?
All’inizio odiavo la burocrazia e il formalismo, l’approccio paludato che dimentica gli obiettivi del cliente per rifugiarsi nella tecnica. Oggi, per esempio, non si valorizzano quei fondamentali che in realtà sono la nostra forza.
Cioè?
In un mondo soggetto a forti cambiamenti e in cui tutti sentiamo forte il bisogno di poterci fidare dei nostri partner, c’è una grande richiesta di etica da parte delle imprese. Termini come società benefit, ESG, ecc. sono di gran moda. Pure troppo, mi faccia dire. La nostra categoria, però, non trova la forza di valorizzare la deontologia, uscendo dal formalismo. Altro aspetto negativo? Oggi nel mondo del lavoro ci sono forti attriti nel dialogo tra le generazioni. I giovani cercano sempre di più un mentore capace di guidarli con sincerità e aiutarli a crescere.
E allora?
La categoria, invece, non riesce a fare del praticantato un elemento di forza distintivo a causa delle mille criticità che ben conosciamo e che conoscono i giovani professionisti. Per noi la selezione e la crescita dei profili junior sono strategiche. Rappresentano il futuro dello studio e come tali vanno valorizzate Per questo affianchiamo alla formazione interna quella esterna, anche post universitaria. Ovviamente siamo esigenti, i ragazzi devono essere consapevoli della gavetta necessaria.
Guardiamo al futuro della professione e all’utilizzo delle nuove tecnologie.
Dovremmo utilizzare la tecnologia, sfruttandone le potenzialità, senza idolatrarla o temerla, ma soprattutto dovremmo interrogarci su come valorizzare gli elementi distintivi della professione, accettando la sfida del mercato.
Sta lavorando già a un prossimo libro?
Il mio ultimo libro “Restartup, le scelte imprenditoriali non più rimandabili” (2019 – EGEA) è diventato un testo per gli studenti del Master RIAF di Ca’ Foscari. Mi ha dato molte soddisfazioni. È un libro ancora assolutamente attuale grazie alle numerose interviste e alla qualità degli intervistati che ancora oggi ringrazio. La gratificazione più grande è venuta dagli imprenditori. Vorrei scrivere un testo snello e operativo per aiutare gli imprenditori a lavorare sull’analisi e a identificare i driver della loro impresa. Per ora è solo un progetto. Sarebbe bello legarlo a una borsa di studio universitaria, creando un fil rouge tra impresa, università e consulenza.