Il Fisco può chiedere il fallimento della tua azienda?

di Lodovico Poschi Meuron
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Il fisco può chiedere il fallimento di un’impresa ?

La risposta è sì. Agenzia delle Entrate o Agenzia delle Entrate Riscossione ha la possibilità di rivolgersi al Tribunale competente per dichiarare il fallimento della società debitrice.

Per avanzare tale richiesta risulterà sufficiente che l’Agente della riscossione alleghi alla domanda il semplice ruolo esattoriale. Questo senza che risulti necessaria la preventiva notifica di un avviso o di una precedente azione esecutiva.

Istanza di fallimento, irrilevante l’iscrizione a ruolo 

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 28192/2020, afferma che “ai fini del computo dell’esposizione debitoria minima prevista dall’art. 15, comma 9, l.fall. rilevano alla stregua di debiti scaduti e non pagati le passività tributarie portate da un avviso di accertamento conosciuto dal destinatario (per avvenuta sua notifica o perché acquisito in giudizio), a prescindere dall’iscrizione a ruolo e dalla trasmissione del carico fiscale all’agente della riscossione”.

Nuovo codice della crisi, grande opportunità per scongiurare il fallimento 

Il nuovo codice della crisi, entrato in vigore dal 15 luglio, è una rivoluzione in tutti i sensi.

Oltre a superare vecchi steccati imposti da una legge fallimentare ormai più che scaduta, mette al centro il ruolo dell’imprenditore che d’ora in avanti avrà una corsia preferenziale per far pace con il Fisco e con gli enti previdenziali e riportare così in carreggiata la sua azienda.  

Evitando quindi la scomoda etichetta del fallimento.

Questo perché sarà più facile ottenere dai tribunali l’omologa delle proposte di concordato preventivo per raggiungere gli accordi di ristrutturazione del debito, entrambi gli istituti da affiancare con la transazione fiscale

Una vera manna dal cielo perché l’emendamento al dl 125/2020 (il primo decreto sulla fase 2 dell’emergenza Covid) interessa una grandissima platea di imprese ed ha effetti molto ampi.

L’art. 3 del decreto inserisce modifiche agli artt. 180, 182-bis e 182-ter LF, di fatto apportando nell’impianto normativo attuale una delle novità introdotte dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Cosa cambia? Moltissimo.

Infatti, tutte le imprese a rischio di insolvenza che dimostrano che dalla liquidazione del patrimonio in un alternativo scenario fallimentare non sono in grado di pagare integralmente i loro debiti previdenziali, contributivi ed erariali, possono ottenerne lo stralcio (fino all’85%).

Ne consegue che anche ai creditori pubblici deve essere riconosciuta la sola percentuale pagata agli altri creditori di pari rango (chirografario). 

Anche la vecchia legge fallimentare lo prevedeva, ma con una sostanziale differenza: per ottenere lo stralcio occorreva anche ottenere il voto favorevole alla proposta da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’Inps e degli altri enti titolari dei crediti. Ora non più.

Il ruolo del professionista, attore centrale per risolvere le crisi fiscali

Le modifiche introdotte ribaltano lo scenario a favore del debitore. 

Infatti, la decisione spetta solo ed esclusivamente al tribunale mentre gli enti creditori (Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Entrate Riscossione ed Inps) stanno a guardare. 

D’ora in avanti sarà il Tribunale a poter omologare la proposta di concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione del debito.

Questo ogni qual volta che il debitore dimostra, tramite l’attestazione sottoscritta dal professionista, che la proposta non è peggiorativa e anzi conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare del patrimonio. 

 

Photo Unsplash / Ryoji Iwata

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