Il cosiddetto “Tovagliometro” è uno degli elementi che, insieme ad altri, Agenzia delle Entrate utilizza per dimostrare un maggior reddito in capo all’esercente di un’attività commerciale, di ristorazione o alberghiera, rispetto a quello dichiarato. E quindi la conseguente evasione fiscale.
Partendo dal costo (cioè dal consumo) sostenuto dal ristorante per la lavanderia, l’ufficio determina induttivamente il presunto ricavo.
Quindi, da un mero dato contabile (il costo di acquisto della materia prima o del servizio) viene ricostruito induttivamente il maggior ricavo evaso, presuntivamente ricavato dall’utilizzo di quella determinata materia prima.
Fra Pandemia di Covid 19, aumenti delle materie prime, controlli e verifiche dell’Agenzia delle Entrate, gestire un albergo, un bar o un ristorante è diventato un percorso a ostacoli.
Concentriamoci in questo articolo sul fronte fiscale per ricordare come l’Agenzia delle Entrate, mediante il metodo analitico-induttivo, possa contestare la presunta evasione del contribuente. Ma sapendo anche che tale contestazione debba poi basarsi su presunzioni qualificate, cioè gravi, precise e concordanti.
Quando il Fisco parte dai dati analitici per calcolare il reddito in via presuntiva
In pratica il Fisco parte da alcuni dati analitici (ad esempio, la quantità di farina/caffè acquistata) per calcolare, in via presuntiva, il reddito che si sarebbe dovuto produrre e, quindi, tassare.
La Giurisprudenza, sia nel merito che nella legittimità, negli ultimi anni si è più volte pronunciata sulle circostanze in cui è ammesso l’utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo (ex art. 39, co.1, lettera d, del D.p.r. 29/9/1973, n. 600) e sulla legittimità dell’operato dell’Ufficio che prende a base i consumi delle materie prime.
Così, appunto, si è iniziato a parlare di “Tovagliometro”, che, come si può facilmente intuire, riguarda il consumo di tovaglie e tovaglioli.
Si tratta di uno degli elementi che, insieme ad altri, Agenzia delle Entrate utilizza per dimostrare un maggior reddito in capo all’esercente di un’attività commerciale, di ristorazione o alberghiera, rispetto a quello dichiarato.
Ma come ci si può difendere davanti a simili contestazioni?
Innanzitutto, c’è da tener presente che in ogni verifica non si deve comunque prescindere dal buon senso.
Nello specifico, tale metodologia si fonda su una logica per cui, per ogni consumazione di un pasto al tavolo, un cliente debba adoperare un tovagliolo, e che ogni tovaglia sia per quattro coperti.
Ne consegue che il numero complessivo dei tovaglioli e delle tovaglie usati possa costituire un supporto fattuale idoneo a fornire la reale rappresentazione dei pasti serviti.
Ma è davvero così?
Molto spesso succede che l’ufficio non tiene in considerazione che in realtà il numero di tovaglioli e di tovaglie utilizzati non corrisponde al numero esatto dei coperti.
A questi, infatti, si deve ragionevolmente sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli e tovaglie normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto a utilizzare più tovaglioli.
Cosa dice in merito la Corte di Cassazione
A tal riguardo la Cassazione ha chiarito che: “Il c.d. tovagliometro è un metodo di accertamento presuntivo dei ricavi di un esercizio di ristorazione; la ricostruzione dei ricavi non può essere fondata esclusivamente sulla presunzione dell’utilizzo di ogni tovaglia per un numero di quattro clienti” (Cass. sent. n. 16981/2018).
Tale principio è stato ribadito più volte dai Supremi Giudici, i quali, pur ammettendo la legittimità dello strumento di verifica, hanno chiarito che comunque si deve tenere conto di variabili derivanti dall’uso comune, e, quindi, dal buon senso.